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Resoconto africano: Senegal, Gambia, Guinea Bissau


Revo
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Grande Revo, i tuoi viaggi sono sempre pieni di sentimento, songs e tanta tanta poca figa. Bravo!

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Appena torno ad avere una connessione Internet stabile, non presente sull'Appennino Ligure dove mi sono ritirato ora, rispondo a tutti e magari integro e inserisco la descrizione di bici ed equipaggiamento, tutto molto abbordabile comunque. Intanto ancora grazie, neh.

LupinRS i comandi bar-end sono comodi da matti, il fatto è che effettivamente trasportati montati sono sporgenti e offrono troppe leve per i caricatori frettolosi. Comunque il cavo in tensione ha tenuto in posizione il manettino traballante  (a cui fondamentalmente è saltato l'expander) che ha continuato ad essere utilizzabile. Non veloci come i comandi integrati ma, per la mia limitata esperienza fin qui, dei gran muli .Davvero dei bei pezzi di ingegneria nipponica.

FedericoZ quando dico che ho ammansito i doganieri intendo a parole. Preferisco perdere tempo in chiacchiere che sborsare soldi per offrire bevande o pagare gabelle inventate; come la "tassa di primo ingresso in Gambia" di circa settantacinque euro che hanno tentato di farmi pagare al ritorno, nonostante avessi già i timbri sul passaporto di quando ho attraversato il paese all'andata. Credo davvero, e scusate se magari suono fricchettone o troppo romantico e queste parole si ripetano spesso, che in genere la bici avvicini e che la fatica che trasuda uno completamente zuppo in sella ad una bicicletta obsoleta possa trattenere dall'accanirsi troppo.
Dopo tutta 'sta sviolinata vi svelo la realtà dell'accaduto al confine con la Guinea, che richiede un visto che non avevo. Potevo farlo in Italia, ma sono un disorganizzato cronico; potevo farlo all'ambasciata di Ziguinchor ma era chiusa, era venerdì, avevo una donzella che m'aspettava 130km di pioggia più in là che non vedevo da mesi. È finita che ho pagato il visto venti euro più del dovuto, mi consolo (o metto a tacere qualcosa che mi urla dentro) pensando che il sovrapprezzo è stato regolarmente riportato su una ricevuta ufficiale che conservo gelosamente.

Gufo e Alb, sempre a pensare agli umori, eh? Figa il giusto, ossia il disponibile.

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Che brutto affare!

pedalare in Africa sotto una pioggia torrenziale

mercanteggiare un visto e la frontiera superare

e il deragliatore rotto da fascettare

io ti consideravo un fixedman ma non sei neanche fixed

Revo

non sei nemmeno la metà di un Dafne-man

Che brutto affare!

 

niente è il millesimo messaggio di demenza ma Revo è nucleare

up

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fastidio ti guadagni di diritto un -più spazioso- posto nel mio cuoricino. 

Grazie ancora a tutti gli enthusiasts, soprattutto a riky76, che è stato uno degli ultimi a vedere la Olmo prima del furto e ha sicuramente messo una buona parola con gli sgherri di Schilirò perché me la restituissero.

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Cari utenti e carissime utentesse del foro più baffuto dell'etere, sono tornato dalla mia scampagnata di una ventina di giorni nell'Africa Occidentale. "Embé?", direte voi; embé mò vi cuccate uno sproloquio sui primi tre giorni, quelli che da Dakar, capitale del Senegal, mi hanno portato in bici fino a Bissau, capitale dell'omonima Guinea. Per chi non avesse intenzione di leggere, popolo sfaticato a me caro, ho preparato una versione ridotta che comunque racchiude tutti i concetti essenziali. Per chi volesse dedicare un po' della propria retina alle mie parole, invece, il racconto parte dopo la versione succinta, che si trova qui:

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Anche questo, come la maggior parte dei miei viaggi, inizia all'arrembaggio, nel dilettantismo più becero, con l'imballaggio della bici effettuato con l'insostituibile sostegno di mio fratello e del mio vicino di casa a poche ore dalla partenza. A inscatolamento concluso, mi rendo conto di non aver inserito i distanziali per preservare i forcellini e sgrano un rosario invocando pietà per il mio telaio.

All'aeroporto di Malpensa, in attesa di imbarcarmi, passo in rassegna l'aspetto burocratico della spedizione e ricontrollo l'itinerario per l'ultima volta.

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Qualche ora, sonnellino, film d'azione e cibo d'aereo dopo, sbarco a Dakar. E' quasi notte, mi affretto a cambiare qualche soldo e a scartare la bici, trepidante, nel piazzale antistante l'aeroporto respingendo le richieste dei tassisti e guadagnandomi un piccolo pubblico entusiasta. Rimontando la bici mi rendo conto che il telaio e le ruote sono intatti, mentre il cambio ha subito qualche danno: un comando bar-end è traballante e ho perso un rinvio per il deragliatore anteriore. Non mi perdo d'animo e monto in sella percorrendo i venti chilometri che mi separano dalla casa di Rémi, il ragazzo svizzero che mi ha ospitato nel cuore di Dakar con la sua gentilissima ragazza, spingendo il 34 senza poter ricorrere alla corona estarna. Costeggio l'oceano al buio, risalgo il monticello con il maestoso monumento al Rinascimento Africano illuminato a giorno e scrocco qualche telefonata in giro per mettermi in contatto con il mio neutrale ospite alpino. Trascorro una piacevole serata bevendo karkadé e informandomi su tariffe e rischi di richieste folli di denaro alla frontiera con la Gambia, poi mi concedo qualche ora di sonno obnubilato dal clima caldo e dall'aria immobile.

La mattina del 29 inizia alle 6:37, Rémi mi scatta qualche foto compromettente e poi parto in direzione Sud, sfrecciando sulla tangenziale tra vecchi furgoni Mercedes e strombazzanti taxi francesi di qualche decennio fa. La città si sta ancora svegliando quando lascio alle mie spalle l'ultimo ponte pedonale divelto, con le scalinate che portano verso il cielo, per attraversare le baracche di chi si è insediato da poco nella capitale e dirigermi verso la zona brulla dell'interno. Una volta superata Rufisque e evitato il bivio per Thiès il traffico si dirada. Mi infilo in una pompa di benzina e ottengo una fascetta per sistemare il deragliatore anteriore: posizione la catena sul 50 e, sotto un sole sempre meno timido, proseguo per M'bour. E' subito chiaro che la mia borraccia da 900ml servirà giusto a lavarmi le mani, per cui mi doto di una bottiglia da un litro e mezzo e di una mezza dozzina di banane e mi godo i baobab a perdita d'occhio e l'ambiente polveroso che circonda la strada, sempre asfaltata e in ottime condizioni, che conduce a Fatick.

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Qui compro un'altra bottiglia, affronto i primi chilometri di sterrato e prendo un'altro litro e mezzo d'acqua a Gandiaye, una ventina di chilometri più in là dove sciolgo anche del sale nella mia borraccia, per poi arrivare finalmente ad avvistare il fatidico cartello, mentre sfrutto la scia di un carretto.

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Passata Kaolack, proseguo verso il confine con il Gambia e ottengo anche un assaggino di pioggia, inaspettata. Sta ormai facendo buio, trovo ospitalità presso il marabout del villaggio di Touba Samokho. Mi offre un piattone di riso con salsa di cipolle (pesce rifiutato per non approfittare fino in fondo), una doccia e una camera per la notte; trascorro la serata in compagnia sua, di suo figlio Seidou e di una corte eterogenea di parenti, abitanti del villaggio, amici e bambini che studiano presso di lui. Dormo interrotto dalle litanie notturne del muezzin e riparto di buon'ora, verso le 5:30, dopo aver salutato Seidou e gli altri ragazzi che si stavano preparando per la giornata nei campi. Dopo poco l'alba esplode alle mie spalle:

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Dopo l'alba, anche il cielo esplode sopra la mia testa e inizia a piovere, a secchiate, senza nessun margine di miglioramento promesso dall'orizzonte grigio. Inizio a cantare Johnny Cash ed esplode anche la strada, senza preavviso, portandomi in Gambia su una settantina di chilometri di sterrato leggero, su terra battuta. Avvicinandomi al paese anglofono all'interno del Senegal mi accorgo, dal cambiamento della vegetazione, che la pioggia non smetterà mai: l'ambiente semi desetrico della regione di Kaolack ha definitivamente lasciato spazio ad un verde brillante e lussureggiante che cerca di sporgersi verso la strada. Il traffico è decisamente scemato, ad eccezione di qualche sept-place (vecchie stationwagon Peugeot o Renault convertite a taxi) solitario che mi supera sferragliando di tanto in tanto. Mentre mi chiedo se davvero sono sulla strada giusta, dopo Toubakouta una coppia di scimmie mi attraversa la strada e mi dà il benvenuto a Karang, al confine con il Gambia.

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Dribblo i cambiavalute e ammansisco i poliziotti di frontiera, inizio a fischiettare Guccini e, sotto una pioggia più clemente ma sempre incessante, copro la distanza tra la frontiera e Barra, dove faccio il rifornimento di arachidi, cambio qualche franco CFA in Dalasi, la valuta della Gambia, e mi imbarco sul traghetto per Banjul, la capitale di quarantamila abitanti del paese che si sviluppa attorno all'omonimo fiume. Sull'altra sponda, dopo aver chiacchierato con un signore il cui figlio sta lavorando ad Alba, attraverso una città caratterizzata da voragini piene d'acqua nella zona centrale, vecchi taxi Mercedes ovunque, ville curatissime e nuove auto fuoriserie da centinaia di migliaia di euro che sfrecciano sulla statale che porta a Sud. Chiaramente sulle corsie libere, ché quella di sinistra è intasata dalla fanghiglia e quindi riservata a bici, carretti e arditi pedoni. Compro un altro piccolo casco di banane e attraverso questo stato in cui tutte le strade sembrano essere diventate dei torrenti, completamente inondate e perse nella boscaglia. Nel pomeriggio riguadagno il Senegal, entrando nella regione della Casamance, e mi faccio consigliare da un ciclista con un aratro chilometrico in spalla per cercare un posto per la notte.

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Dormo a Diouloulou in una sorta di resort che intacca sensibilmente le mie finanze ma che mi offre una buona cena, un buon letto e qualche ottima chiacchiera prima di ripartire di nuovo la mattina del 31 di primissimo mattino. Buona parte del bagaglio è bagnato dal giorno precedente e anche i vestiti che ho addosso non sono propriamente asciutti, ma parto comunque schivando i tronchi che mi si parano dinnanzi all'ingresso di ogni paese per rallentare la corsa dei bus e dei taxi. A Bignona compro dell'olio per lubrificare un po' la mia catena, sofferente dopo un giorno di pioggia, sabbia, terra e sporcizia varia. Entrando a Ziguinchor, città più popolosa della regione circondata da risaie, mi ritrovo a percorrere dieci chilometri di una strada composta interamente di autobloccanti. Ogni mia articolazione inizia a ballare il tuca-tuca, io canto Raffaella Carrà mentra una colonna di mezzi dell'esercito continua a farsi superare e a superarmi spruzzandomi ogni volta addosso decine di litri dell'acqua calda delle pozzanghere a centro strada. Inveisco in italiano ai militari che mi salutano sorridendo; inizio a sibilare "Che brutto affare" di Joe Chiarello. Una volta raggiunta Ziguinchor atttraverso il suo enorme ponte, poco manca all'una di pomeriggio e poco manca a Mpack, alla frontiera con la Guinea.

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Mercanteggio il visto con gli odiosi ufficiali alla frontiera, gli unici personaggi davvero fastidiosi nel viaggio d'andata (esclusi i militari dispensatori d'acqua), e inizio a pedalare in mezzo alla foresta della Guinea. La pioggia non cessa nemmeno un secondo, anzi si fa più intensa. Mi compro una baguette e un sacco di arachidi e continuo a pedalare, tra la gente che mi incita e diversi mezzi ribaltati tra gli alberi a bordo strada, tra gli enormi termitai. Quasi non incontro mezzi, ad eccezione di un motociclista senegalese che aiuto a ripartire perché è rimasto fermo sotto il diluvio al riparo di un enorme baobab. Iniziano i sali e scendi, o mangia e bevi se preferite, e inizia anche un fastidioso vento contrario. Continuo, sgranocchiando noccioline e pane e salutando i localz che mi incitano dalla protezione delle proprie verande.

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Raggiungo finalmente Bula, a soli trentacinque chilometri dalla destinazione finale. Ormai mi sento arrivato, pregusto i capelli della mia adorata, un pasto caldo, lo scroscio della doccia, la morbidezza del materasso. Ed è pendanso alla morbidezza del materasso che mi accorgo di aver ammorbidito la gomma anteriore. Rallento e accosto, effettuando la riparazione sotto ad un capanno di paglia che si è materializzato alla mia sinistra, come d'incanto. Riparto in fretta (relativa) e, dopo i trentacinque chilometri più sofferti della mia risibile carriera ciclistica, entro trionfante a Bissau, accolto da una partita di calcio giocata nel mezzo dell'enorme rotonda d'accesso alla città. Dopo il lungo rettilineo che mi conduce, tra pericolosi pulmini gialloblu e taxi Mercedes biancoblu, tra le braccia della mia bella, non ho più molto da raccontarvi. Mi permetto solo di aggiungere una foto scattata dopo aver pedalato cinque minuti per le vie di Bissau in un giorno senza pioggia:

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Baci, e grazie a chi s'è sorbito tutto, testo e foto monotematiche!

Il ritorno in bus (benché più avventuroso) ve lo risparmio.

Non ho capito una cosa: la tua bella è la ragazza dello svizzero? : D

Complimenti, bel viaggio, bel racconto.

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Finalmente dopo giorni in cui cercavo il tempo sono riuscito a leggere, bhè che dire, emozioni solo a leggere il resoconto, non immagino nemmeno viverlo!

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Anche questo, come la maggior parte dei miei viaggi, inizia all'arrembaggio, nel dilettantismo più becero, con l'imballaggio della bici effettuato con l'insostituibile sostegno di mio fratello e del mio vicino di casa a poche ore dalla partenza. A inscatolamento concluso, mi rendo conto di non aver inserito i distanziali per preservare i forcellini e sgrano un rosario invocando pietà per il mio telaio.

All'aeroporto di Malpensa, in attesa di imbarcarmi, passo in rassegna l'aspetto burocratico della spedizione e ricontrollo l'itinerario per l'ultima volta.

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Qualche ora, sonnellino, film d'azione e cibo d'aereo dopo, sbarco a Dakar. E' quasi notte, mi affretto a cambiare qualche soldo e a scartare la bici, trepidante, nel piazzale antistante l'aeroporto respingendo le richieste dei tassisti e guadagnandomi un piccolo pubblico entusiasta. Rimontando la bici mi rendo conto che il telaio e le ruote sono intatti, mentre il cambio ha subito qualche danno: un comando bar-end è traballante e ho perso un rinvio per il deragliatore anteriore. Non mi perdo d'animo e monto in sella percorrendo i venti chilometri che mi separano dalla casa di Rémi, il ragazzo svizzero che mi ha ospitato nel cuore di Dakar con la sua gentilissima ragazza, spingendo il 34 senza poter ricorrere alla corona estarna. Costeggio l'oceano al buio, risalgo il monticello con il maestoso monumento al Rinascimento Africano illuminato a giorno e scrocco qualche telefonata in giro per mettermi in contatto con il mio neutrale ospite alpino. Trascorro una piacevole serata bevendo karkadé e informandomi su tariffe e rischi di richieste folli di denaro alla frontiera con la Gambia, poi mi concedo qualche ora di sonno obnubilato dal clima caldo e dall'aria immobile.

La mattina del 29 inizia alle 6:37, Rémi mi scatta qualche foto compromettente e poi parto in direzione Sud, sfrecciando sulla tangenziale tra vecchi furgoni Mercedes e strombazzanti taxi francesi di qualche decennio fa. La città si sta ancora svegliando quando lascio alle mie spalle l'ultimo ponte pedonale divelto, con le scalinate che portano verso il cielo, per attraversare le baracche di chi si è insediato da poco nella capitale e dirigermi verso la zona brulla dell'interno. Una volta superata Rufisque e evitato il bivio per Thiès il traffico si dirada. Mi infilo in una pompa di benzina e ottengo una fascetta per sistemare il deragliatore anteriore: posizione la catena sul 50 e, sotto un sole sempre meno timido, proseguo per M'bour. E' subito chiaro che la mia borraccia da 900ml servirà giusto a lavarmi le mani, per cui mi doto di una bottiglia da un litro e mezzo e di una mezza dozzina di banane e mi godo i baobab a perdita d'occhio e l'ambiente polveroso che circonda la strada, sempre asfaltata e in ottime condizioni, che conduce a Fatick.

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Qui compro un'altra bottiglia, affronto i primi chilometri di sterrato e prendo un'altro litro e mezzo d'acqua a Gandiaye, una ventina di chilometri più in là dove sciolgo anche del sale nella mia borraccia, per poi arrivare finalmente ad avvistare il fatidico cartello, mentre sfrutto la scia di un carretto.

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Passata Kaolack, proseguo verso il confine con il Gambia e ottengo anche un assaggino di pioggia, inaspettata. Sta ormai facendo buio, trovo ospitalità presso il marabout del villaggio di Touba Samokho. Mi offre un piattone di riso con salsa di cipolle (pesce rifiutato per non approfittare fino in fondo), una doccia e una camera per la notte; trascorro la serata in compagnia sua, di suo figlio Seidou e di una corte eterogenea di parenti, abitanti del villaggio, amici e bambini che studiano presso di lui. Dormo interrotto dalle litanie notturne del muezzin e riparto di buon'ora, verso le 5:30, dopo aver salutato Seidou e gli altri ragazzi che si stavano preparando per la giornata nei campi. Dopo poco l'alba esplode alle mie spalle:

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Dopo l'alba, anche il cielo esplode sopra la mia testa e inizia a piovere, a secchiate, senza nessun margine di miglioramento promesso dall'orizzonte grigio. Inizio a cantare Johnny Cash ed esplode anche la strada, senza preavviso, portandomi in Gambia su una settantina di chilometri di sterrato leggero, su terra battuta. Avvicinandomi al paese anglofono all'interno del Senegal mi accorgo, dal cambiamento della vegetazione, che la pioggia non smetterà mai: l'ambiente semi desetrico della regione di Kaolack ha definitivamente lasciato spazio ad un verde brillante e lussureggiante che cerca di sporgersi verso la strada. Il traffico è decisamente scemato, ad eccezione di qualche sept-place (vecchie stationwagon Peugeot o Renault convertite a taxi) solitario che mi supera sferragliando di tanto in tanto. Mentre mi chiedo se davvero sono sulla strada giusta, dopo Toubakouta una coppia di scimmie mi attraversa la strada e mi dà il benvenuto a Karang, al confine con il Gambia.

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Dribblo i cambiavalute e ammansisco i poliziotti di frontiera, inizio a fischiettare Guccini e, sotto una pioggia più clemente ma sempre incessante, copro la distanza tra la frontiera e Barra, dove faccio il rifornimento di arachidi, cambio qualche franco CFA in Dalasi, la valuta della Gambia, e mi imbarco sul traghetto per Banjul, la capitale di quarantamila abitanti del paese che si sviluppa attorno all'omonimo fiume. Sull'altra sponda, dopo aver chiacchierato con un signore il cui figlio sta lavorando ad Alba, attraverso una città caratterizzata da voragini piene d'acqua nella zona centrale, vecchi taxi Mercedes ovunque, ville curatissime e nuove auto fuoriserie da centinaia di migliaia di euro che sfrecciano sulla statale che porta a Sud. Chiaramente sulle corsie libere, ché quella di sinistra è intasata dalla fanghiglia e quindi riservata a bici, carretti e arditi pedoni. Compro un altro piccolo casco di banane e attraverso questo stato in cui tutte le strade sembrano essere diventate dei torrenti, completamente inondate e perse nella boscaglia. Nel pomeriggio riguadagno il Senegal, entrando nella regione della Casamance, e mi faccio consigliare da un ciclista con un aratro chilometrico in spalla per cercare un posto per la notte.

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Il ritorno in bus (benché più avventuroso) ve lo risparmio.

Quando ti ho visto a Pisa, avevo l' idea che potevi essere un tipo avventuruoso. Ho avuto la conferma.

GRANDEEEEEE !

M

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 [...]

Quando ti ho visto a Pisa, avevo l' idea che potevi essere un tipo avventuruoso. Ho avuto la conferma.

GRANDEEEEEE !

M

Il tutto condito da una abbondante dose di improvvisazione.

Grazie Mauro, e pure a voialtri, a presto. 

 

Modificato da Revo (visualizza cornologia modifica)
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